Sul nome B.a.c.h.
contrappunti con L’arte della fuga
Un viaggio in Germania, da Eisenach a Lubecca,
sulle tracce di Bach, dentro una delle opere più emblematiche e assolute
Beethoven diceva che Bach non era un ruscello ma un mare.
La musica di Bach sta a un piccolo film come un oceano sta a un guscio di noce: non potendo in alcun modo esservi contenuta, se ne può cogliere solo la sua decantazione e la sua astrazione.
L’arte della fuga, senza apparente destinazione strumentale e senza un nome (il suo titolo fu apposto probabilmente dal figlio C. Ph. Emanuel o da Marpurg) è lasciata incompiuta da Bach e costituisce, insieme alle ultime, per certi versi enigmatiche, opere (L’offerta musicale, le Variazioni Goldberg, le Variazioni canoniche…), un cosciente testamento per il futuro, per l’eternità.
La fuga, per sua natura musicale, è un motore perpetuo, che non ha fine, per cui solo un’interruzione brusca può porvi termine. La sua incompiutezza è indice della sua smisurata compiutezza.
Il pensiero che viene trasferito sulla carta e ritorna alla mente di chi “legge” diventa così la sintesi perfetta del genio di Bach e della musica stessa. E come per magia può essere racchiusa in quel picciol vaso che è la lanterna magica del cinema, in cui troveranno posto anche le tante vicende e i tanti luoghi vissuti da Bach.
L’altra sfida è quella di calare questo pensiero musicale, destinato probabilmente alla sola tastiera, nella matericità e concretezza dei colori di tutti gli strumenti possibili, come un gigantesco clavier à lumière, quasi a renderlo tangibilmente e prepotentemente visibile a tutti.
(F. L.)